Socrate si è trovato a vivere in un periodo cruciale per la storia di Atene e della Grecia tutta. La sua data di nascita è il 469 a. C., che è la data probabile della battaglia dell'Eurimenonte, con la vittoria della lega di Delo, guidata da Atene, contro i persiani. È la vittoria che apre il periodo di maggiore splendore della vita di Atene, dominata dalla figura di Pericle e caratterizzata dalla realizzazione di un sistema politico radicalmente democratico (anche se occorre sempre ricordare che il diritto di voto era riservato a una parte della popolazione cittadina). Centrali divennero l'assemblea dei cittadini (ekklesia) e il consiglio dei Cinquecento (boulè), introdotti già con le riforme di Clistene, mentre vennero tolti la maggior parte dei poteri all'Areopago, espressione dell'aristocrazia. Le cariche pubbliche venivano assegnate per sorteggio, in modo che ogni cittadino aveva la possibilità di accedervi, e retribuite; anche la giustizia era amministrata direttamente da cittadini appositamente sorteggiati.
A condurre la città verso il declino è il conflitto con Sparta nella guerra del Peloponneso, iniziata nel 431 a.C. e durata ventisette anni. Atene ne esce sconfitta ed umiliata. Nel 404 si instaura un regime oligarchico, detto dei Trenta Tiranni, sotto la guida di Crizia, che però dura solo otto mesi. La democrazia viene restaurata nel 403. (Bettalli, D'Agata, Magnetto, pp. 200 segg.).
Socrate nacque ad Atene dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete. Secondo Diogene Laerzio fu discepolo di Anassagora e, dopo la sua condanna per empietà, del suo discepolo Archelao. Partecipò come oplita alla battalia di Potidea, durante la quale secondo Platone (Simposio, 220 d-e) salvò la vita ad Alcibiade. In questa occasione rimase in piedi una intera notte a riflettere su una idea che gli era venuta in mente. Combattè anche in altre occasioni (a Delio e ad Anfipoli), distinguendosi per il coraggio.
Busto di Socrate. Musei Vaticani, Roma.
Nel 406 a.C. fu eletto nel consiglio dei Cinquecento, opponendosi, lui solo, alla richiesta di un processo collettivo contro i generali ateniesi che durante la battaglia delle Arginuse non avevano salvato i soldati rimasti in mare. Durante il regime dei Trenta Tiranni si oppose, a rischio della morte, di obbedire all'ordine di arrestare il democratico Leonzio di Salamina perché fosse condannato a morte.
Con il ritorno della democrazia, nel 399, fu accusato da un certo Meleto di non riconoscere gli dèi della città introducendone di nuovi e di corrompere i giovani. La prima accusa è probabilmente legata alla sua convinzione di avere un demone interiore che lo dissuadeva quando stava per compiere un errore. Nonostante la sua brillante difesa, fu condannato a morte (bevendo un estratto di cicuta, un'erba velenosa).
Socrate era sposato con Santippe, che la tradizione raffigura come una donna dal carattere insopportabile, ed aveva tra figli. Di aspetto non bello, anche se di fisico forte e rubusto, vestiva con estrema semplicità. Secondo Diogene Laerzio, la sua attività filosofica avveniva "sia nelle botteghe sia in piazza" e suscitava reazioni contrastanti: "Spesso, siccome disputava con troppa violenza nelle indagini filosofiche, era percosso con i pugni e gli venivano tirati i capelli e, per lo più, era deriso con disprezzo. Ma egli sopportava tutto questo con spirito di tolleranza. Una volta fu preso a calci e siccome sopportò, ad uno che si stupiva di questo, disse: 'E se fosse stato un asino a prendermi a calci, avrei forse dovuto citarlo in giudizio?'" (Diogene Laerzio, pp. 168-169). Una caratteristica delle testimonianza su Socrate è quella di oscillare tra il tragico — per cui è stato spesso paragonato al Cristo — ed il comico.
Socrate non ha lasciato opere scritte, dal momento che la sua attività filosofica era tutt'uno con il dialogo. La fonte principale per la conoscenza del suo pensiero è Platone, il suo grande discepolo. Socrate è il protagonista di diversi suoi dialogi, dall'Apologia di Socrate, che è un resoconto del processo con la difesa del filosofo, al Critone, il Gorgia, il Protagora e il Memone, vale a dire alcuni dei dialoghi platonici più imporanti. È molto difficile tuttavia distinguere negli scritti platonici il Socrate storico dal Socrate personaggio letterario, e dunque il pensiero del maestro da quello del discepolo. Per questa ragione non useramo qui gli scritti platonici, rimandando la trattazione del Socrate platonico allo studio di Platone. Una seconda fonte, anch'essa poco attendibile per il carattere evidentemente politico e satirico, è il commediografo Aristofane, che nella commedia Le nuvole (rappresentata la prima volta nel 423 a.C.) presenta Socrate come un ciarlatano, che fa scoperte ridicole e insegna a far prevalere tesi assurde con i propri sofismi. Qui useremo una terza fonte: Senofonte.
Secondo Diogene Laerzio, da giovane Senofonte si imbatté in Socrate in una via stretta. Il filosofo gli sbarrò la strada con un bastone e cominciò a interrogarlo sulla provenienza dei diversi alimenti. Il giovane Senofonte rispose correttamente. Allora Socrate gli chiese da dove provengono gli uomini virtuosi. Senofonte non seppe rispondere. “Seguimi, allora, e imparalo”, gli disse Socrate (Diogene Laerzio, Libro II, 48, p. 195). E da quel giorno Senofonte divenne discepolo di Socrate, che frequentò per circa tre anni.
Nato ad Atene intorno al 430 a.C., Senofonte è noto soprattutto per l’Anabasi, testimonianza della vicenda dei mercenari greci, di cui faceva parte lui stesso, assoldati dall’imperatore Ciro il Giovane per impossessarsi del trono di Persia, ma è autore anche di quattro scritti socratici: l’Apologia di Socrate, i Memorabili, l’Economo e il Simposio. I Memorabili in particolare costituiscono una fonte importante per la conoscenza di Socrate, anche se variamente valutata dagli studiosi: i più considerano il Socrate di Senofonte un Socrate minore, filtrato dalla sensibilità poco raffinata di Senofonte, ma non manca chi ritiene che il fatto che Senofonte sia uno storico, e non un filosofo, gli abbia consentito di riportare il messaggio socratico in modo fedele, senza le alterazioni dovute alla riflessione personale o ai propri interessi speculativi.
Dopo aver riferito che Socrate considerava stolti coloro che si occupano di questioni fisiche e naturalistiche, Senofonte così presenta l’oggetto della sua ricerca:
1 Egli, invece, sempre si occupava delle cose riguardanti l’uomo, indagando su che cosa fosse pio, che cosa empio, che cosa bello, che cosa turpe, che cosa giusto, che cosa ingiusto, che cosa fossero la saggezza, la follia, il coraggio, la viltà, lo Stato, l’uomo politico, il governo degli uomini, l’uomo di governo, e ragionava intorno a quelle altre questioni conoscendo le quali egli riteneva si fosse dei galantuomini, mentre ignorandole credeva si fosse chiamati, a ragione, schiavi. (Memorabili, I, 1, 16; Senofonte, pp. 237-239)
Il metodo con il quale Socrate indaga le questioni che riguardano l'essere umano (e che insegna a chi lo segue) è quello della dialettica.
2 Cercherò di dire anche questo, che rendeva quelli che stavano con lui anche più esperti nell'arte dialettica. Socrate, infatti, riteneva che coloro che sanno che cosa sia ciascuna delle cose che sono esistenti sarebbero in grado di insegnarlo anche agli altri; d'altra parte diceva che non c'era da meravigliarsi che coloro che non sapevano nulla cadessero essi stessi in errore e traessero in errore gli altri. Per queste ragioni non cessava mai di indagare, con quelli che stavano
con lui, cosa fosse ciascuna delle cose che sono.
La ricerca dialettica si concentra sui grandi temi (la giustizia, ad esempio, come vedremo tra poco), ma il centro della riflessione filosofica è l'analisi di sé stessi. Nel passo seguente, discutendo con Eutidemo, Socrate spiega il senso e l’importanza del “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi.
3 E Socrate domandò: “Dimmi, Eutidemo: sei mai stato a Delfì?”
“Due volte, per Zeus”, rispose.
Hai dunque notato che sul tempio, da qualche parte, sta scritto ‘conosci te stesso’?”.
“Sì”.
“Allora non ti sei forse curato dell’iscrizione, o, invece, vi hai prestato attenzione e ti sei messo a indagare chi sei?”
“No di certo, per Zeus — disse —; infatti almeno questo credevo di saperlo bene; se non avessi conosciuto me stesso, a stento avrei potuto conoscere qualcos’altro”.
“Ti pare che conosca se stesso chi conosce solo il proprio nome o chi, esaminando se stesso, per vedere che cosa sappia fare in rapporto alle necessità umane, è consapevole delle proprie capacità, così come quelli che comprano i cavalli non credono di conoscere prima di esaminare quel cavallo che vogliono valutare, se sia docile o riottoso, forte o debole, veloce o lento, e come stanno le cose per tutto il resto che conviene o non conviene per l’uso dei cavalli?”
“Mi sembra – rispose – che chi non conosce quello che sa fare, non conosce se stesso”.
“E non è evidente — continuò — che gli uomini traggono moltissimi vantaggi dal conoscere se stessi e subiscono moltissimi danni dall’ingannarsi su se stessi? Quelli che conoscono se stessi, infatti, sanno che cosa è adatto a loro e distinguono ciò che sanno e ciò che non sanno fare: e, facendo ciò che conoscono, si procurano ciò di cui hanno bisogno e hanno successo, mentre, tenendosi lontani da ciò che non conoscono, non commettono errori ed evitano gli insuccessi; ed essendo per questo in grado di valutare anche gli altri uomini, si procurano beni ed evitano mali anche servendosi degli altri. Invece, quelli che non sono consapevoli, ma anzi si ingannano sulle proprie capacità, si trovano nella medesima situazione nei confronti degli altri uomini e delle altre vicende umane, e non sanno ciò di cui hanno bisogno, né che cosa fanno, né con chi trattano, ma, poiché sbagliano in tutto, non ottengono successi e vanno incontro a disgrazie. Ma quelli che sanno quello che fanno, ottenendo ciò per cui agiscono, diventano famosi e onorati. I loro pari sono lieti di trattare con loro, e quelli che falliscono nei loro obiettivi desiderano che essi diano loro consigli e che li guidino, e ripongono in essi le loro speranze di successo, e per tutti questi motivi li amano molto più di tutti gli altri. Quelli, invece, che non sanno quello che fanno, poiché scelgono male e falliscono in ciò che intraprendono, non solo in questo ricevono danni e punizioni, ma ne traggono anche una cattiva fama, diventano ridicoli e vivono disprezzati e senza onori. Vedi che anche tra le Città, quelle che, non consapevoli della propria potenza, fanno guerra a nemici più forti, le une vengono annientate, le altre, da libere, cadono in schiavitù”.
Ed Eutidemo disse: “Sappi, Socrate, che mi sembra proprio che si debba tenere in gran conto il conoscere se stessi; ma per sapere da dove bisogna cominciare per indagare su se stessi, per questo mi rivolgo a te, se vorrai spiegarmelo”. (Memorabili, IV, 2, 24-30; Senofonte, pp. 553-557)
{1} L'espressione equivale all'italiano "perbacco", "accidenti".
In dialogo con Ippia di Elide Socrate affronta la questione della giudizia. Il sofista è sostenitore dell'esistenza di un diritto naturale, che comporta un forte ridimensionamento del valore delle leggi stabilite dagli uomini. Socrate discute con Ippia anche in due dialoghi platonicio l'Ippia maggiore e l'Ippia minore.
4 E diceva spesso così anche ad altri, e so che una volta discusse con Ippia di Elide a proposito della giustizia nel modo seguente. Ippia, giunto ad Atene dopo un certo tempo, si presentò da Socrate nel momento in cui egli stava dicendo ad alcuni che sarebbe strano che, se uno volesse insegnare a qualcuno a fare il calzolaio o il carpentiere o il fabbro o il cavaliere, non avesse dubbi su dove mandarlo per ottenere ciò — alcuni dicono che anche per chi volesse allevare un cavallo e un bue in modo giusto, ci sono ovunque aspiranti maestri —; se poi uno volesse imparare lui stesso il giusto o insegnarlo a un figlio o a uno schiavo, non saprebbe dove andare per attenerlo.{1}
E Ippia, udite queste parole, domandò, come se volesse prenderlo in giro: "Dici ancora le stesse cose che ti ho sentito dire in passato, Socrate?".
E Socrate rispose: "Ma c'è di peggio, Ippia, perché non solo dico sempre le stesse cose, ma anche sugli stessi argomenti; forse tu, per il fatto che sei dotto in molteplici campi, non dici mai le stesse cose sugli stessi argomenti".
"Ma certo — disse —, cerco di dire sempre qualcosa di nuovo".{2}
"Anche su ciò che conosci? — chiese — Per esempio, a proposito delle lettere, se uno ti domanda di quante e di quali lettere è composto il nome di Socrate, cerchi di rispondere prima in un modo, poi in un altro? O a proposito dei numeri, a chi ti domanda se due volte cinque fa dieci, non rispondi allo stesso modo, adesso come prima?".
"Su questi temi, Socrate — ammise —, anch'io, come te, dico sempre le stesse cose; a proposito del giusto, però, penso proprio di poter dire, ora, cose a cui né tu né nessun altro potreste controbattere".
"Per Era {3}, dici di aver scoperto un grande bene — rispose —, se i giudici smetteranno di dare il loro voto in due modi diversi, i cittadini smetteranno di suscitare contrasti sui propri diritti, di intentarsi processi e di dividersi fra loro, e le Città smetteranno di contendere sui propri diritti e di farsi guerra. E io non so come poteri allontanarmi da te, prima di averti sentito parlare della scoperta di un tale bene".
"Ma non mi ascolterai, per Zeus, — rispose — prima di aver spiegato tu stesso che cosa ritieni che sia il giusto; ti sei preso gioco abbastanza degli altri interrogando e confutando tutti, mentre non vuoi dare ragione a nessuno né rivelare la tua opinione su nulla".
"Ma come, Ippia? Non ti sei accorto — disse — che io non smetto mai di dichiarare quello che mi sembra sia giusto?"
"Che discorso è questo?", chiese.
"Se non a parole — continuò —, lo dimostro a fatti; o non ti pare che il fatto sia più convincente della parola?".
"Molto — riconobbe —, per Zeus! Molti, pur dicendo cose giuste, commettono azioni ingiuste; mentre nessuno sarebbe ingiusto, compiendo azioni giuste".
"Dunque, ti sei mai accorto che io mentissi, o accusassi falsamente, o spingessi gli amici o la Città a dividersi, o facessi qualche altro atto ingiusto?"
"No", rispose.
"E non consideri giusto astenersi da azioni ingiuste?"
"È chiaro, Socrate — osservò —, che anche ora cerchi di evitare di esprimere un'opinione su che cosa ritieni sia il giusto: dici, infatti, non quello che i giusti fanno, ma quello che non fanno".
"Ma io credevo — replicò Socrate —, che il non voler commettere ingiustizia fosse una sufficiente dimostrazione di giustizia. Se però non ti sembra, considera se preferiresti questo: io dico che è giusto ciò che è conforme alla legge".
"Forse vuoi dire, Socrate, che ciò che è conforme alla legge e ciò che è giusto coincidono?"
"Sì", rispose.
"Non capisco, però, cosa tu intenda per 'conforme alla legge' e per 'giusto'".
"Conosci — chiese — le leggi della Città?".
"Sì", rispose.
"E cosa pensi che siano?".
"Ciò che i cittadini hanno messo per iscritto — rispose —, accordandosi su ciò che bisogna fare e su ciò che bisogna evitare".
"Dunque — chiese — non sarebbe 'conforme alla legge' chi vive da cittadino rispettandole, e 'contro la legge' chi le viola?".
"Certamente", rispose.
"Dunque, non farebbe forse cose giuste chi obbedisce alle leggi, ingiuste chi non le rispetta?".
"Certo".
"«Dunque, chi compie azioni giuste è giusto, chi compie azioni ingiuste è ingiusto?".
"Come no?".
"Dunque, chi vive secondo la legge è giusto, chi vive contro la legge è ingiusto".
E Ippia chiese: "Socrate, come si potrebbero ritenere una cosa seria le leggi o l'obbedirvi, se spesso gli stessi che le hanno stabilite, dopo averle ritenute insufficienti, le cambiano?".
"Anche le Città — rispose Socrate — dopo aver suscitato una guerra, fanno di nuovo la pace".
"Proprio così", ammise.
"Allora, col disprezzare quelli che ubbidiscono alle leggi per il fatto che esse potrebbero essere abolite, credi forse di fare qualcosa di diverso dal biasimare coloro che nelle guerre osservano la disciplina, per il fatto che potrebbe esserci pace? O rimproveri quelli che nelle guerre portano aiuto alla patria con prontezza?".
"Io no, per Zeus", rispose.
"Hai notato — chiese Socrate — che lo spartano Licurgo non avrebbe reso Sparta diversa dalle altre Città, se non avesse infuso in essa soprattutto l'obbedienza alle leggi? E non sai che, fra quelli che governano nelle Città, quelli che più di tutti fanno sÌ che i cittadini obbediscano alle leggi sono i migliori, e che la Città in cui i cittadini obbediscono maggiormente alle leggi in pace vive nel modo migliore e in guerra è invincibile? Inoltre, la concordia sembra sia il bene più grande per le Città, e molte volte in esse i consigli degli anziani e gli uomini migliori invitano i cittadini a essere concordi; e ovunque in Grecia vige la legge secondo cui i cittadini giurano di restare concordi, e ovunque ripetono questo giuramento. E io penso che ciò avvenga non affinché i cittadini votino gli stessi cori, né affinché lodino gli stessi flautisti, né affinché scelgano gli stessi poeti, né affinché godano delle stesse cose, ma affinché ubbidiscano alle leggi. Infatti, se i cittadini rispettano le leggi, le Città diventano più forti e più felici: senza concordia, una Città non potrebbe essere ben governata, né una casa ben amministrata. In privato, come si potrebbe essere meno puniti dalla Città ed essere maggiormente onorati, che obbedendo alle leggi? Come si potrebbe essere meno sconfitti in tribunale, o come si potrebbe avere maggiore possibilità di vincere il processo? Di chi ci si fiderebbe di più per affidargli denaro o figli o figlie? Chi la Città intera considererebbe più degno di fiducia di chi agisce secondo la legge? Da chi otterranno maggiormente i loro diritti genitori, parenti, amici, cittadini o stranieri? A chi i nemici affiderebbero più volentieri tregue, accordi o trattati di pace? Di chi, più che di chi osserva la legge, vorrebbero diventare alleati? A chi più volentieri gli alleati affiderebbero il comando in guerra, il comando di una guarnigione o le Città? Da chi si potrebbe pensare di ricevere gratitudine, dopo avergli fatto del bene, più che da chi rispetta la legge? O a chi si farebbe del bene più volentieri che a colui da cui si pensa di poter ricevere gratitudine? Di chi si vorrebbe essere più amici, o meno nemici, se non di un uomo simile? Con chi si vorrebbe combattere meno se non con colui di cui si vorrebbe essere molto amici e per nulla nemici, e di cui moltissimi vorrebbero essere amici e alleati, pochissimi invece avversari o nemici? Dunque io, Ippia, dimostro che conformità alla legge e giustizia sono la stessa cosa; se tu sei di parere contrario, spiegamelo".
E Ippia disse: "Per Zeus, Socrate, non mi pare di avere opinioni contrarie a quelle che tu hai espresso a proposito della giustizia".
{1} Si tratta di un evidente attacco ai Sofisti, che ritenevano di poter insegnare la virtù. | {2} Ippia era noto per la sua "polimatia", la capacità di avere conoscenze nei campi del sapere più vari, grazie anche ad una particolare tecnica di memorizzazione. | {3} Anche in questo caso l'espressione è equivalente al nostro "perbacco". | {4} Ippia vede nelle leggi della Città il risultato di un semplice accordo tra i cittadini; Socrate non contesta questa tesi, ma sostiene che il rispetto rigoroso delle leggi della Città è ciò che la rende forte e stabile. Nei Sofisti l'affermazione dell'esistenza di un diritto naturale conduce alla considerazione della fratellanza umana, e dunque al cosmopolitismo; Socrate invece vede nella relativizzazione delle leggi della Polis il rischio di minare le fondamenta stesse della vita civile.
Senofonte mette in particolare risalto, nell’insegnamento di Socrate, il ruolo dell’autodominio (ἐγκράτεια). Nel testo che segue ne discute ancora con Eutidemo.
5 Dirò, ora, in che modo rendeva anche più operosi i suoi seguaci. Ritenendo, infatti, che l’autodominio fosse un bene per chi desidera fare qualcosa di nobile, innanzitutto mostrava ai suoi seguaci che lui stesso l’aveva praticato più di tutti gli uomini, poi discorrendo li volgeva più di tutti all’autodominio. Dunque, viveva sempre richiamando alla memoria ciò che è favorevole al raggiungimento della virtù, e lo ricordava a tutti i suoi seguaci.
E so che una volta discusse anche con Eutidemo sull’autodominio, nel modo seguente: “Dimmi, Eutidemo – domandò –, non ritieni forse che la libertà sia un possesso bello e grande, sia per un uomo sia per una Città?”.
“In sommo grado”, rispose.
“Dunque – domandò – chi è dominato dai piaceri del corpo e a causa di questi non può compiere le azioni migliori, ritieni che costui sia libero?”.
“Nient’affatto”, rispose.
“E non è forse perché ti sembra proprio di una persona libera compiere le azioni migliori, che ritieni proprio di una persona priva di libertà avere chi impedisce di compiere simili azioni?”.
“Assolutamente”, rispose.
“Quelli privi di dominio di sé non ti sembrano essere del tutto privi di libertà?”.
“Certo, per Zeus, {1} naturalmente”.
“E a te quelli privi di dominio di sé sembrano essere solo impediti a compiere le azioni più belle, o anche costretti a compiere quelle peggiori?”.
“A me – disse – sembrano non meno obbligati a fare queste cose che impediti a fare quelle”.
“E che genere di padroni credi che siano quelli che impediscono di compiere le azioni migliori, mentre costringono a compiere quelle peggiori?”.
“Per Zeus, i peggiori possibile”, rispose.
“Quale ritieni che sia la schiavitù peggiore?”.
“Quella presso i cattivi padroni”, disse.
“E coloro che sono privi di dominio di sé non sono forse schiavi del1a peggiore schiavitù?”.
“Mi sembra”, rispose.
“Ma non ti pare che la mancanza di moderazione, tenendo lontana dagli uomini la sapienza, il bene più grande, li getti in balia del suo opposto? O non ti sembra che essa impedisca loro di prestare attenzione alle cose utili e di conoscerle, trascinandoli nei piaceri, e spesso, stordendoli nella conoscenza del bene e del male, faccia sì che scelgano il peggio invece del meglio?”.
“È questo che accade”, rispose.
“E la saggezza, Eutidemo, a chi diremmo che conviene meno che a un uomo privo di moderazione? Infatti, le opere della saggezza e della mancanza di autodominio sono opposte”.
“Concordo anche su questo”, disse.
“E pensi che ci sia qualcosa che più della mancanza di autodominio impedisca di prendersi cura di ciò che conviene?”.
“No”, rispose.
“E pensi ci sia qualcosa di peggio per l’uomo di fargli scegliere, invece delle cose che giovano, quelle che danneggiano, e di convincerlo a occuparsi di queste trascurando quelle, e di costringerlo ad agire in modo opposto a coloro che sono saggi?”.
“No”.
“Non è probabile, dunque, che il dominio di sé sia per gli uomini causa di effetti opposti rispetto all’intemperanza?”.
“Certo”, rispose.
“E non è dunque probabile che la causa degli effetti opposti sia una cosa ottima?”.
“È probabile, infatti”, riconobbe.
“Sembra allora, Eutidemo – aggiunse –, che il dominio di sé sia il bene più grande per l’uomo?”.
“Sì, è probabile, Socrate”, ammise.
“Hai mai pensato a questo, Eutidemo?”.
“A che cosa?”, chiese.
“Al fatto che la mancanza di dominio di sé non può condurre verso quei piaceri, verso i quali essa sola sembra guidare gli uomini, mentre il dominio di sé fa sì che se ne tragga il massimo godimento”.
“E come?”, domandò.
“La mancanza di dominio di sé non permette di sopportare né la fame né la sete né il desiderio dei piaceri d’amore né la veglia – che sono le sole cose per cui è possibile mangiare e bere e fare l’amore piacevolmente, e ancora piacevolmente risposarsi e dormire, dopo aver a lungo sopportato e atteso, fino a che queste cose abbiano raggiunto il massimo piacere –, e impedisce di godere in modo significativo delle attività cui si è costretti di necessità; invece il solo dominio di sé, rendendo capaci di sopportare le cose di cui si è detto, fa provare un godimento degno di rilievo dei piaceri di cui si è detto”. “Dici il vero – commentò –, sotto ogni aspetto”.
“Inoltre, dell’imparare ciò che è bello e buono e del curare quelle cose attraverso cui ciascuno può provvedere diligentemente al proprio corpo e amministrare diligentemente i propri possedimenti ed essere d’aiuto agli amici e alla Città e dominare i nemici – cose dalle quali non solo si traggono vantaggi, ma anche grandissimi piaceri –, coloro che sono dotati di dominio di sé godono facendo queste cose, mentre quelli che ne sono privi non partecipano di nessuna. A chi, infatti, diremmo che convengano meno tali cose, se non a colui al quale in nessun modo è possibile svolgere queste attività, essendo occupato nel ricercare i piaceri del momento?”.
Ed Eutidemo disse: “Mi sembra, Socrate, che tu dica che a un uomo dominato dai piaceri del corpo non appartiene in alcun modo nessuna virtù”.
“Eutidemo – domandò –, cosa distingue, infatti, l’uomo privo di dominio di sé dalla belva più selvaggia? Chi non distingue le cose migliori, ma cerca di fare in ogni modo quelle più legate al piacere, in che cosa, infatti, si distinguerebbe dagli animali privi di facoltà intellettiva? Ma a coloro che sono padroni di sé è possibile indagare quali siano le cose migliori, e, scegliendole secondo il genere, nel parlare e nell’agire preferire quelle buone ed evitare quelle cattive”.
E diceva che così gli uomini diventano eccellenti e felicissimi, e abilissimi nella capacità dialettica; {1}) diceva anche che la discussione dialettica viene così definita dal fatto che ci si riunisce per deliberare in comune, distinguendo le cose per genere. E che è dunque necessario cercare di esercitarsi il più possibile in questa stessa attività e dedicarsi a essa in massimo grado: diceva, infatti, che grazie a questo gli uomini divengono nobili e abilissimi nel comando e nelle dispute. (Memorabili, IV, 5, 1-12; Sefononte, pp. 591-599).
Una delle preoccupazioni di Senofonte è difendere Socrate dalle accuse che lo hanno condotto alla condanna a morte, in particolare l’accusa di non credere negli dèi e di corrompere i giovani. Nel testo che segue ne discute con Aristodemo.
Nel testo che segue Socrate, dopo aver rimproverato un suo giovane seguace di nome Epigene (che compare anche nel Fedro platonico) per la sua pessima forma fisica, gli spiega l’importanza di dedicarsi alla cura del corpo.